La spinta al consumismo dell’attuale società favorisce la canalizzazione dei vissuti emotivi ed affettivi personali, suggerendone il controllo, la modulazione, la conversione o, molto spesso, la loro inibizione. Parallelamente a quanto succede a livello sociale con il consumismo, anche l’individuo è impegnato in un’irrefrenabile corsa volta a soddisfare, in modo pressoché immediato, i propri bisogni. È infatti ai beni di consumo che viene affidato sempre più spesso il compito di rendere le persone felici (si pensi ai modelli proposti dalle pubblicità). Così facendo, viene modulato, rallentato, alterato o addirittura bloccato l’impegno necessario allo sviluppo di quelle competenze (relazionali, emotive ed affettive, ma spesso anche “pratiche”) indispensabili alla costruzione della propria personalità e, conseguentemente, alla costruzione di un’esistenza reputata quantomeno soddisfacente. Ed ecco allora tornare i concetti di proprietà empatogene ed entactogene correlati al consumo di sostanze psicotrope, ovvero in grado di facilitare il contatto – o il distacco – tanto con il proprio mondo interno che con quello esterno, sostanze capaci di rendere più accessibili, tollerabili o meno visibili, i propri vissuti emotivi ed affettivi.
La possibilità di avere tutto a portata di mano e immediatamente usufruibile, “tutto e subito” – quanto meno in linea teorica – riduce la capacità dei giovani di tollerare una vasta serie di vissuti emotivi considerati spiacevoli quali il dolore, la tristezza, la timidezza, l’ansia e la noia. La crisi economica che stiamo vivendo a livello globale sembra complicare ulteriormente questo quadro sociologico patologizzante: secondo un recente studio pubblicato su Archives of General Psychiatry, la crisi può avere effetti sull’infanzia dei bambini con ripercussioni comportamentali in adolescenza che sfociano in condotte devianti e nel ricorso alle droghe. Il messaggio offerto dalla società è quantomeno contraddittorio: da un lato la spinta al consumismo, dall’altro una realtà che non permette, quanto meno alla maggioranza delle famiglie, di soddisfare tale richiesta. Parallelamente a quella economica si instaura una crisi relazionale, affettiva, di riconoscimento delle proprie emozioni, con una ricaduta assai elevata in termini di disagio sociale.
La comunità scientifica, specialmente quella rappresentata dagli psichiatri, dagli psicologi e dagli operatori dei servizi “di prima linea”, segnala da alcuni anni l’incremento nella popolazione giovanile e dei giovani-adulti, delle problematiche di adattamento, dei disturbi dello spettro ansioso-depressivo (si pensi agli attacchi di panico sempre più frequenti) e dei disturbi della personalità, questi ultimi ponte epistemologio tra i disturbi appena descritti e le forme ben più strutturate di disagio psichico (non a caso il disturbo “borderline” è il più frequente). Le sostanze psicotrope (alcol, droghe, psicofarmaci) diventano, in molti casi, le uniche capaci di far provare ai giovani emozioni intense, certe (ovvero ri-sperimentabili ad ogni assunzione della sostanza) e – apparentemente – durature, piuttosto che in grado di alleviare una sofferenza non ascoltata, mascherata, nascosta a volte persino a se stessi. Cancrini nel 1980 e ancor prima Kohut nel 1977 avevano ipotizzato teorie secondo cui il ricorso alle sostanze d’abuso potesse essere il risultato di una ricerca a fini autoterapeutici tesa ad alleviare quel senso di vuoto e quello smarrimento comuni a molti giovani, o a contrastare la sintomatologia di veri e propri stati di disagio psichico. L’alcol e le droghe condividono il ruolo di serbatoio emotivo, rendendo funzionale l’esistenza della persona, attraverso il raggiungimento di stati emotivi piacevoli, socialmente accettati e personalmente accettabili, allontanandone altri, magari più dolorosi e socialmente stigmatizzati (Kornreich et al. 2012; Caroti, Fonzi, Marconi e Bersani 2007; Poikolainen 2006). Gli stimoli appresi, legati alla ricompensa piacevole che deriva dall’uso di sostanze, suscitano quel desiderio che, nei soggetti che ne diverranno dipendenti, diventa spasmodico e compulsivo, concretizzandosi nel fenomeno del craving.
Nonostante la consapevolezza circa le conseguenze derivanti dall’uso (Robinson M.J., Berridge K.C., Instant Transformation of Learned Repulsion into Motivational “Wanting”, Current Biology, 2013), il bilancio tra i rischi correlati al consumo di droghe e il beneficio che inizialmente sembra derivarne in termini di benessere psichico, spinge i neo-consumatori a scotomizzarne gli svantaggi, favorendo il prevalere della componente positiva. Tale meccanismo viene ulteriormente amplificato dalla biochimica, ovvero dall’interazione tra la sostanza e i circuiti neuronali deputati ai meccanismi di ricompensa e del piacere. Le modificazioni indotte dall’incontro con le sostanze, ormai ben note soprattutto grazie alla PET con cui si ottengono mappe dei processi funzionali cerebrali, sono generalmente temporanee e rapidamente reversibili all’inizio (ovvero dopo le primissime assunzioni) ma diventano sempre più durature (e in alcuni casi permanenti) dopo ripetute sperimentazioni. All’inizio, il bilancio che segue ad ogni contatto con la droga, indipendentemente dal tipo di sostanza, dalle modalità di assunzione, dalle dosi e dal contesto in cui ciò avviene, tende a favore dei vantaggi (non a caso, tale periodo, viene indicato come “luna di miele”). Così facendo, scompaiono le paure che erano presenti durante l’iniziazione all’uso (che avviene, non a caso, sempre assieme a qualcuno “già esperto”), così come gli effetti avversi sperimentati alla prima assunzione. Questi aspetti contribuiscono ad alimentare ulteriormente il meccanismo che permette al soggetto di prendere sempre più confidenza con la sostanza e, conseguentemente, a vivere con meno timore l’angoscia iniziale, allontanando l’idea, anche ci fosse mai stata, che ciò che sta usando sia pericoloso, dannoso, crei dipendenza e che avrà conseguenze distruttive per la propria vita. È proprio questo il “miracolo” con il quale ci si ritrova tossici senza rendersene conto, senza aver mai desiderato esserlo. Così si entra in quello che molti hanno definito vortice, turbine o, i più ottimisti, tunnel, lasciando la speranza a chi lo sta attraversando, di poterne prima o poi uscire.
Chi fa uso di droghe e chi ne diventa dipendente, si innamora di una sostanza in particolare; anche nei policonsumatori (la combinazione più frequente è cannabis, cocaina, eroina e come sostanza trasversale l’alcol) vi è una sostanza primaria, di elezione, che diventa insostituibile. Il consumo di sostanze non è però sostenibile nel tempo: l’innamoramento iniziale, l’esperienza della luna di miele (termine maggiormente attribuibile all’uso di eroina), tendono progressivamente a svanire per via dell’incapacità di gestire le conseguenze psicofisiche e sociali a medio e lungo termine correlate all’uso. Quando la persona inizia a percepire di essere “andato oltre” (e lo percepisce sempre molto tardi!), ovvero quando – dapprima saltuariamente, poi costantemente – i problemi correlati alla “gestione” della sostanza si presentano con cadenza quotidiana (aumento della frequenza delle assunzioni e necessità di farne ricorso; pensiero ricorrente, prevalente o dominante la giornata; tempo impiegato per l’approvvigionamento; spesa economica; conseguenze sul piano relazionale, familiare, lavorativo, legale), ecco allora iniziare il lento calvario (per sé stesso e per la famiglia, quando presente). Il tentativo volontario da parte del soggetto di uscire dal vortice, riducendo o sospendendo l’uso della sostanza, diventa drammaticamente fallimentare. Ai sintomi da sospensione (che si hanno, con differenti modalità, per tutte le sostanze psicotrope, non si pensi solo alla sindrome astinenziale da eroina) si vanno a sommare la mancata ritualità dell’atto con cui si assumeva la sostanza (il “farsi”, ovvero bucare, fumare, inalare, ecc.), i richiami del contesto (luoghi, persone, abitudini) e l’affiorare alla coscienza (prima soppressa o comunque fortemente modificata dalla sostanza) di sensazioni spiacevoli se non addirittura intollerabili. Tali disturbi sono caratterizzati dalla relazione con una sostanza per la quale, essendone la persona venuta a contatto ed avendone sperimentato gli effetti, coesistono forte appetizione, polarizzazione mentale, comportamentale e dipendenza. Se la sperimentazione della sostanza era apparsa inizialmente un utile strumento al superamento del disagio derivante dalla gestione del proprio mondo interiore (relazionale, emotivo, sentimentale), la sospensione dell’uso non solo provoca il riaffiorare di quel malessere, ma ne determina uno peggiore, un malessere che se prima della sperimentazione della sostanza era “tollerabile”, ora è ingestibile. Al disagio psicologico si affiancano, in modo alterno, veri e propri disturbi d’ansia, dell’umore e un senso di vuoto che appare insuperabile; ed è a questo punto che “le buone intenzioni”, ovvero le prassi messe in atto nel tentativo di uscirne, vengono costantemente poste in discussione, ritrattate o rimandate.
È attraverso l’esperienza emotiva che si sviluppano le competenze necessarie a riconoscere, accettare e utilizzare i propri vissuti emotivi come strumento di conoscenza di se stessi e del mondo esterno. I vissuti emotivi risultano fondamentali per riuscire ad affrontare il percorso di vita e per superare le difficoltà che vi si possono incontrare. L’apprendimento delle dimensioni emozionali ed affettive dovrebbe rappresentare un percorso naturale per i giovani, necessario per sviluppare le competenze utili a vivere ed accettare i vissuti emotivi (piacevoli o dolorosi) che risultano elementi funzionali alla crescita ed indispensabili al mantenimento di un costante benessere psicologico, che non necessiti del ricorso alle sostanze.
* Antonio Floriani è medico psicoterapeuta, Direttore del Centro LiberaMente di Genova. Esperto in dipendenze e comportamenti d’abuso, lavora da molti anni, a diversi livelli, nel settore. Per informazioni o per fissare un appuntamento, contattate il Centro LiberaMente o scrivete all’indirizzo antonio.floriani@centroliberamente.com