Ero indeciso se intitolare questo articolo “L’inesorabile leggerezza del bere”, sottotitolo: “se nella vita non si è mai sviluppato il cocainismo. Sarebbe stato un titolo a maggiore effetto, ma sicuramente chi incontrerà in rete questo articolo non è alla ricerca di scoop sensazionali quanto a dare spiegazione a qualcosa di apparentemente inspiegabile, irrazionale. Come ma l’alcol risulta essere per molte persone -la maggior parte- un qualcosa di innocuo il cui uso, più o meno abituale, non comporta grossi sconvolgimenti alla propria vita sociale, lavorativa, familiare, mentre altre persone si sviluppano una modalità del bere problematico se non una vera e propria forma di alcolismo cronico? Come mai persone che hanno avuto in passato una storia “pesante” con l’alcol o con le droghe non possono permettersi il cosiddetto “bere sociale” o “bere moderato” se non accettando un rischio elevato di ricaduta (nell’alcolismo cronico o nella ricaduta del consumo continuativo di sostanze) anche dopo molti anni di astensione volontaria da queste sostanze?
Ho conosciuto molte persone nella mia vita professionale, molti pazienti con esperienze diversissime nella loro dipendenza, sviluppata da giovani, da meno giovani, in lunghi anni o In brevissimo tempo.
Sto parlando di tutti coloro che sono arrivati a usare sostanze in modo problematico, inteso come un consumo dichiarato solo dopo anni come devastante e incompatibile con una vita dignitosa, in grado di portar via affetti, salute, lavoro, denaro, con ricadute in ogni ambito della propria esistenza. Un qualcosa di così potente e così irrazionale che nessuno di coloro che non ci sono mai passati può comprendere. E ho conosciuto molti pazienti, tutti diversi tra di loro, ma accomunati dalla stessa malattia che si chiama dipendenza. È una malattia strana, tanto che per alcuni questa definizione risulta stretta per via delle sue caratteristiche uniche e talvolta incomprensibili non tanto alla scienza quanto piuttosto alla logica umana. Ho conosciuto pazienti che hanno compreso cosa gli era accaduto ovvero di aver sviluppato una dipendenza senza mai aver pensato prima che ciò potesse capitare anche a loro. Qualcuno l’ha riconosciuta sin da subito, altri ci hanno messo anni a comprenderla, ad ammetterla, ad accettare di aver sviluppato una malattia che a un certo punto ti trovi, senza volerlo, come un cancro che si è sviluppato silente senza dare segni evidenti, sintomi eclatanti o come un’allergia per un alimento che ti piaceva e continua a piacerti ma che a un certo ti fa star male, ti distrugge, o ti porta alla morte.
Ho conosciuto pazienti che, molto giovani, compreso il grosso inganno che c’era dietro alle sostanze che utilizzavano e consapevoli della dipendenza che avevano sviluppato, si sono umilmente arresi, hanno chiesto aiuto, hanno messo in atto le strategie utili ma soprattutto necessarie a staccarsi dapprima dalla sostanza e soprattutto, poi, a evitare che questa rientrasse nella propria vita. Ad alcuni è bastato un primo giro, ad altri è stato necessario ricadere, ribatterci il naso, farsi nuovamente male, e scoprire che ad ogni ricaduta la sostanza prende sempre più potere e ti distrugge sempre di più. Ad alcuni non è bastato un secondo, un terzo, un quarto giro.
Ho conosciuto pazienti che hanno accettato che la malattia continuasse a distruggere loro stessi e le vite intorno a loro, presuntuosi del fatto che andasse bene così e che questa fosse la vita che avevano scelto. Del resto non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, e nonostante i vari tentativi di poter stimolare anche in questi una qualche volontà di cambiamento, di fronte ad alcuni di loro ci siamo arresi e abbiamo lasciato che fosse il loro destino, già segnato, a determinare il loro catastrofico futuro. Per alcuni di loro la carcerazione è stata La prima è unica occasione di conoscere da quando avevano sviluppato la propria dipendenza un periodo libero dalla sua stanza in cui hanno riscoperto Come si sta la lucidi, hanno riscoperto le emozioni, A volte sgradevoli, che si trovano quando si è puliti. Alcuni li hanno apprezzate e le hanno sapute governare, altri sono tornati ad annebbiarle riprendendo volontariamente il consumo di robe.
Per quei pazienti, invece, che hanno manifestato una più o meno forte volontà di cambiamento, ci siamo dedicati con impegno, professionalità, con l’anima e spesso anche con il cuore, perché chi di noi ha scelto di fare questa professione, l’ha fatto per passione e forse anche per vocazione. Perché le loro vite e quelle del loro famiglia potessero migliorare e perché la tanto auspicata serenità o addirittura felicità potesse prima o poi sopraggiungere anche in loro. Per questi pazienti abbiamo messo in campo tutte le energie affinché non solo potessero mollare la sostanza ma soprattutto perché non ci ricadessero. Per alcuni di loro ha funzionato, per altri è stata solo una delle tante più o meno brevi, più o meno lunghe pause della propria carriera tossicomanica. Del resto anche l’organizzazione Mondiale della sanità ha definito questa malattia cronica e ad andamento recidivante proprio per il continuo alternarsi di fasi drug-free più o meno protratte di remissione dall’uso, a fasi attive di utilizzo sempre precedute da una occasionale ricaduta. Quello che scientificamente è accertato, pur rispettando le variabili personali, è che coloro che hanno sviluppato una dipendenza nei confronti di una o più sostanze sono esposti ad un rischio elevatissimo di ricaduta, che varia sì negli anni, ma altrettanto direttamente correlato al grado di presunzione ovvero alla capacità di mantenere alta la guardia su determinate situazioni che notoriamente e costantemente determinano la ricaduta.
È per questo che ci sono pazienti che sono ricaduti dopo due anni, cinque, dieci anni che non usavano più droghe.
In coloro che hanno sviluppato nel passato un cocainismo, l’utilizzo di alcol è notoriamente uno degli elementi maggiormente slatentizzanti la malattia dormiente, alcool utilizzato in maniera più o meno sporadica, più o meno occasionale, più o meno circostanziata. Non si tratta di demonizzare l’alcool, Ma si tratta di essere oggettivi rispetto e soprattutto nel rispetto delle persone che hanno conosciuto nella loro vita sostanze come la cocaina e che hanno sviluppato un cocainismo nel loro passato. Il bere moderato, il bere sociale, il bere occasionale noto a tutti e ben sviluppato nelle nostre società civili, non vale e non può valere per queste persone. La proprietà subdola dell’alcol di non determinare un immediato craving nel paziente cocainomane in remissione protratta fa sì che la persona sviluppi una tolleranza (non solo in termini farmacologici e neurobiochimici, ma soprattutto psicologici) al cosiddetto bere moderato e si illuda progressivamente e sempre più di una raggiunta capacità nel gestire l’alcool, magari conferendogli caratteristiche di occasionalità nel suo utilizzo, in circostanze ludiche e lontane dai contesti in cui nel passato consumava cocaina. È proprio in forza di questa percezione, tanto reale in alcuni momenti della vita, quanto mendace nel poter immaginare che essa possa perdurare nel tempo, a determinare spesso le ricadute nell’uso di cocaina. Non si tratta di certezza, ma di aumento esponenziale dei rischi, situazione che nel paziente affetto da un disturbo da uso di sostanze, in remissione protratta, deve essere assolutamente scongiurato per evitare al minimo il rischio di ricadute ma che nel contempo caratterizza proprio il paziente tossicodipendente.
Non è certo una birra bevuta al barbecue con gli amici a determinarla (sempre che gli amici non siano quelli della vecchia guardia…), non è di certo il brindisi o l’aperitivo per festeggiare un anniversario, non è certo il calice di vino bianco in occasione di una mangiata di pesce, ma è proprio questa falsa illusione di poterselo ormai permettere che rinforza progressivamente l’idea di aver raggiunto la capacità di gestire l’alcol se utilizzato in determinate occasioni.
Ma nella vita di ciascun essere umano, sappiamo bene, si va incontro a periodi di maggiore stress, di paura, di rabbia, di sconforto, talvolta di confusione per cui, per questi soggetti, l’alcol ritorna fortemente come sostanza modulatrice dei propri stati d’animo più sgradevoli. Ritorna perché in qualche modo i neuroni che – magari per anni – ne erano stati astinenti, lo hanno riconosciuto e il sistema gabaergico (e poi quello dopaminergico) ha ripreso a funzionare come quando questa sostanza era presente assieme alla cocaina durante abbuffate a base di coca e alcool.